venerdì 4 marzo 2016

LA TRADIZIONE DELL'AGNELLO



Quella dell’agnello pasquale è una tradizione che affonda le radici molto lontano, fin dalle origini della cristianità. L’agnello, simbolo sacrificale per eccellenza, per la religione cristiana rappresenta Gesù Cristo, e può essere considerato, dunque, quasi lo stemma del cristianesimo. In particolare, è Giovanni Battista a definire Gesù nel Vangelo l’Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo (l’Agnus Dei della liturgia).

Vi è tuttavia anche un importante collegamento tra la tradizione cristiana di consumare l’agnello per Pasqua e l’Antico Testamento e, in particolare, la Pasqua ebraica (Pèsach).Quest’ultima è una festività che dura otto giorni e celebra la liberazione del popolo di Israele dall’Egitto. Secondo la tradizione ebraica un agnello viene immolato il giorno prima della Pèsach e, nonostante sin dal Concilio di Nicea, le date della celebrazione pasquale ebraica e cristiana non coincidano, secondo il Vangelo di Giovanni sembra che il giorno della morte di Gesù corrisponda proprio a quello in cui si immolava l’agnello.

A sua volta, il rito dell’agnello nella Pasqua ebraica – da cui la Pasqua cristiana deriva salvo il rimando cristologico – è volto a ricordare un importante episodio dell’Antico Testamento. Dio, dopo aver annunciato a Mosé e Aronne la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù in Egitto ordinò infatti che tutte le famiglie del popolo di Israele si procurassero un agnello per marcare con il suo sangue gli stipiti delle porte ed evitare così il terribile castigo che aspettava i primogeniti d’Egitto, ovvero la morte.

Anche in questo caso, dunque, l’agnello è simbolo di sacrificio, ma anche di salvezza. E dietro a questo simbolo si cela l’intreccio tra le due più antiche religioni monoteiste.

Per gli animalisti, la battaglia si combatte sul piano delle cifre: quelle degli agnelli macellati ogni anno, circa 3 milioni e mezzo in Italia, in previsione della Pasqua. Per i biblisti e teologi, invece, il terreno di confronto è quello dei testi sacri, dell’Antico e del Nuovo Testamento. Lo stesso Benedetto XVI, durante l’omelia del Giovedì Santo del 2005, riportò l’attenzione sul fatto che probabilmente lo stesso Gesù non consumò l’agnello durante la celebrazione della Pasqua con i suoi discepoli, e cioè durante l’Ultima Cena, rompendo di fatto con la tradizione religiosa ebraica. Questo, aggiungeva il papa, avrebbe fatto sì che a un qualsiasi agnello venisse sostituito l’Agnello come simbolo di incarnazione, e cioè Egli stesso. Ma lo stesso Mosé, secondo i testi dell’Esodo, non avrebbe mai prescritto al popolo eletto l’agnello come cibo obbligatorio da consumare in occasione della Pasqua; solo più tardi, accogliendo i costumi di popolazioni semi-nomadi e pagane, gli ebrei avrebbero cominciato a consumare l’agnello in quel giorno. 



Dal punto di vista ebraico il sangue dell’agnello non salva dai peccati, piuttosto – in Esodo 12 leggiamo – viene posto sugli stipiti delle porte per risparmiare alcune case dal cosiddetto “angelo sterminatore”, che passava ad uccidere i primogeniti. In un’ottica ebraica la Pasqua è una festa, per così dire, “politica”, perché è la festa di una liberazione dalla schiavitù, politica e sociale soprattutto. Non è l’espiazione dei peccati, assolutamente no. Questo avverrà con i sacrifici nel Tempio e poi nel giorno del Kippur, dove ciò che conta sarà un capro, appunto “espiatorio”, più che l’agnello. I testi sono complessi: dal punto di vista cristiano Gesù è stato identificato con l’agnello pasquale. Peraltro il Battista nel Quarto Vangelo dice: “Ecco l’agnello di Dio che porta via il peccato del mondo”. Lo dice il Battista, senza alcun riferimento all’Ultima Cena, ed il suo è un giudizio sulla funzione redentrice svolta da Gesù stesso. Ma pensare ad una Pasqua senza agnello, dal punto di vista ebraico, è impossibile. Semmai la questione è quella del sangue: ricordiamo che il Libro del Levitico proibisce di bere il sangue, perché nel sangue c’è la vita, appartiene a Dio, per questo non si può né toccarlo né berlo. L’agnello pasquale va “immolato”, letteralmente dovremmo leggere sgozzato, proprio nel senso di far uscire il sangue, dissanguato. E infatti si mangia solo la carne. In Giovanni, capitolo 6, dopo il discorso sul pane di vita, Gesù dice: “Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, non avrà la vita”. Una frase scandalosa, tant’è che Giovanni nota che fu allora che molti lo lasciarono, per questo Gesù chiese ai discepoli: “volete andarvene anche voi?”. Questo è uno dei punti di differenziazione tra cristianesimo e giudaismo.

Nel capitolo 23 dell’Esodo, dove si annunciano le feste principali del calendario ebraico, si dice chiaramente che tutte e tre sono connotate da un punto di vista agricolo. La prima è la Festa degli Azzimi, durante la quale si mangia solo il pane e azzimo, dunque è la Pasqua celebrata senza l’agnello; la seconda è la Festa della Primizie, cioè la Pentecoste; la terza è la Festa delle Capanne, o sarebbe meglio chiamarla, Festa del Raccolto. Sono tutte e tre espressioni di una cultura agricola. Successivamente vengono storicizzate da Israele e messe tutte e tre in rapporto all’evento dell’Esodo, che è l’evento storico in senso mitico, ufficiale, fondante, dell’identità israelitica. Inoltre lì si include una componente della cultura pastorizia, per la Pasqua, e gli azzimi vengono integrati dall’agnello. La stessa Pentecoste è enunciata e formulata proprio in vista della Pasqua, perché è il 50° giorno, le 7 settimane dalla Pasqua (7×7 fa quarantanove, più uno, cioè la perfezione somma): è una festa pasquale, perché è in rapporto agli Azzimi, alla Pasqua.
Nei Vangeli sinottici, dove si racconta l’Ultima Cena, l’agnello non compare, ma non si dice esplicitamente che non c’è. Semplicemente non se ne parla. Ma non se ne parla proprio perché la Pasqua ebraica aveva ormai assunto la cadenza tipica della Festa cristiana, la quale, ricordiamolo, non celebra l’uscita dall’Egitto, come gli ebrei, ma celebra la morte di Gesù Cristo, il sangue è il suo: ecco che dal politico si passa all’aspetto più personalistico, per non dire religioso, della Salvezza.





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