venerdì 29 gennaio 2016

LA MARMELLATA



Nonostante nel gergo comune i termini confettura e marmellata siano sinonimi, dal 1982, per effetto di una direttiva comunitaria, solo prodotti ottenuti da agrumi possono essere venduti nell'Unione europea con la denominazione di "marmellata", mentre tutte le altre preparazioni vanno chiamate confettura.

Il nome probabilmente deriva dalla parola portoghese marmelo, per mela cotogna. Diffusa in quasi ogni paese, ha generato una serie di leggende sulla sua origine, che spesso coinvolgono personaggi reali come Elisabetta d'Inghilterra o Maria de' Medici. Si dice, infatti, che i cuochi fiorentini che aveva portato con sé, preparassero per la regina di Francia indisposta e debole dopo una gravidanza, una gelatina ricostituente a base di agrumi. La gelatina piacque tanto alla regina che ne ordinò una gran quantità. Essa fu riposta in vasi con la scritta francese "pour marie malade" da cui verrebbe il francese "marmalade". Già gli antichi greci conservavano le mele cotogne cuocendole lentamente per addensare gli zuccheri contenuti. L'addensamento del composto ottenuto si ha durante il raffreddamento, ad effetto della azione della pectina.

È da notare comunque che, prima dell'avvento dello zucchero, evento alquanto recente, l'unico dolcificante conosciuto oltre ai succhi di frutta (Sapa) era il miele, materiale costosissimo, usato dai ceti poveri come merce di scambio per avere prodotti essenziali, piuttosto che per il consumo diretto.

Il termine "mela di miele" non deriverebbe perciò dalla aggiunta di miele, ma per il fatto, facile da verificare, che la polpa del frutto che è praticamente immangiabile anche in fase di maturità, pochissimo dolce, dura, e piuttosto acre, subisce con la cottura, prima di qualsiasi aggiunta di eventuali addolcenti, una trasformazione drastica degli zuccheri a lunga catena contenuti (quindi "poco dolci") in zuccheri decisamente "dolci", con uno spiccato profumo di miele.

Una preparazione affine è quella della canditura della frutta o della verdura, considerata un regalo principesco nello stesso periodo. È tuttavia probabile che entrambe le tecniche siano ben più antiche: la cottura e, insieme, la concentrazione degli zuccheri assicurano una lunga conservazione della frutta, altrimenti impossibile in epoche prive di sistemi di refrigerazione.

Nella marmellata, confettura, gelatina, composta il principio delle quattro preparazioni è identico. Il risultato varia, però, leggermente. Nella terminologia attuale con marmellata si intende una crema cotta di zucchero e agrumi a pezzetti (limone, arancia, mandarino, e più raramente di pompelmo, clementina, cedro e bergamotto).
La confettura indica la stessa preparazione riferita agli altri tipi di frutta.
La gelatina di frutta viene prodotta con zucchero e succo della frutta, senza polpa o buccia, ed è maggiormente usata in pasticceria per apricottare i dolci prima di glassarli. Compare anche come ingrediente di creme dolci.

La legge prevede che la percentuale di frutta non debba scendere, in ogni caso, sotto il 20%.
Marmellata, confettura o gelatina vengono definite extra se il tenore di frutta è di almeno il 45% e solitamente ne hanno il 35% o 40%.

La composta di frutta si distingue dalla marmellata o dalla confettura per il maggior contenuto di frutta e conseguentemente il minor quantitativo di zucchero aggiunto. La percentuale di frutta deve essere, per legge, superiore al 65%.

La frutta viene mondata delle parti di scarto, tagliata a pezzetti e cotta a lungo nello zucchero sino a che diventa cremosa. Viene quindi messa, bollente, in barattoli. Una volta tappati il calore residuo del composto si occupa di sterilizzarli. La marmellata viene consumata dopo qualche tempo dalla preparazione.

L'aggiunta di piccole quantità di pectina riduce drasticamente i tempi di cottura necessari per ottenere l'addensamento, portandoli da ore a minuti; per tale motivo è comunemente utilizzata nella produzione industriale ma può facilmente essere reperita anche per uso domestico. Viene quindi messa (bollente) in barattoli, subito tappati e messi capovolti (dalla parte del tappo) in mezzo a coperte fino a raffreddamento (questa operazione serve per sterilizzare, con il calore del composto, anche la parte interna del tappo, evitando la formazione di muffe). La piccola quantità di aria che rimane nel barattolo, raffreddandosi, diminuisce di volume e si forma quindi il sottovuoto.

Oggi la produzione industriale inscatola marmellate usando esclusivamente il metodo del sottovuoto e con doppia sterilizzazione: questa tecnica, eseguibile anche in ambito casalingo, evita la crescita di muffe. Il botulino invece non può svilupparsi nella marmellata né nelle confetture perché il loro tenore di zucchero è letale per questo batterio anaerobico; le contaminazioni da botulino nei prodotti casalinghi sono spesso riscontrabili nei sottoli. Lo zucchero o miele rappresenta circa il 40-50% del peso totale: la marmellata è sostanzialmente metà frutta e metà zucchero.



La marmellata e la confettura vengono conservate in vasetti di vetro in genere sottoposti a un doppio processo di sterilizzazione e sotto vuoto. Sia quelle artigianali sia quelle industriali possono essere conservate fuori dal frigorifero finché restano sigillate, ma vanno tenute in frigo una volta aperte, e consumate in genere entro tre settimane. Se si notano rigonfiamenti nel tappo, alterazioni nel colore e formazioni di muffe, è bene gettare marmellata e vasetto senza consumarla.

La marmellata è un alimento glucidico con valori nutrizionali variabili, tra le 130 kcal e le 260 kcal ad etto. Gli zuccheri totali dovrebbero stare (idealmente) tra i 35 e i 40 grammi per 100 grammi di prodotto (corrispondenti a 140-200 calorie per etto). L'etichetta del prodotto deve obbligatoriamente riportare alcuni dati, fra cui la quantità di zuccheri presenti in 100 grammi di prodotto, e la quantità di frutta utilizzata, sempre in 100 grammi. Come già segnalato, per legge la frutta deve rappresentare almeno il 20 per cento del totale nelle marmellate, il 35 per cento nelle confetture e il 45 per cento nelle confetture extra. Sempre per legge non è consentito aggiungere coloranti e conservanti al prodotto; l'unico additivo utilizzabile è la pectina, un enzima presente nella frutta fondamentale per il processo di gelificazione.

Preparare marmellate e confetture in casa non è difficile, e i risultati sono generalmente ottimi. L'unico imperativo categorico da rispettare è quello delle norme igieniche: è fondamentale seguire accorgimenti, come la doppia sterilizzazione dei vasetti, indispensabili ad esempio per distruggere eventuali spore di botulino che possono svilupparsi nelle conserve.
Ingredienti:
Frutta
zucchero
un preparato a base di pectina.
La quantità di zucchero dipende dalla dolcezza o acidità dei frutti scelti per la marmellata; può variare quindi da 500 grammi a un chilo, per ogni chilo di frutta.
Materiali:
Una pentola bassa e larga di rame o acciaio inox (mai di alluminio)
vasetti di vetro con chiusura sottovuoto e guarnizioni nuove
una pentola alta e larga
un mestolo di legno
un piatto.

Lavare la frutta ed eliminare le impurità. Evitare, tranne nel caso degli agrumi, di sbucciarla (la buccia contiene generalmente la pectina necessaria alla gelificazione). Sminuzzare la frutta in parti piccolissime e versarla nella pentola di rame o acciaio inox. Contemporaneamente, far bollire dell'acqua nella pentola più grande, ed immergervi i vasetti aperti che dovranno contenere la marmellata. Lasciarli in acqua bollente per circa dieci minuti.
Far bollire la frutta su fiamma media, mescolare senza interruzione e aggiungere gradualmente lo zucchero. Eliminare schiuma ed eventuali impurità. Se si vuole aggiungere il preparato a base di pectina, abbassare la fiamma, mescolare aggiungendo il preparato, e poi riportare a ebollizione.
Mantenere l'ebollizione per circa cinque minuti, senza aggiungere acqua. Abbassare la fiamma al minimo, e posare una cucchiaiata di marmellata su un piatto appena tolto dal frigo: il composto deve essere compatto e scivolare solo leggermente. Se risulta troppo liquido, aggiungere il succo di un limone per ogni chilo di frutta e riportare a ebollizione finché la marmellata raggiunge la consistenza desiderata.
Versare la marmellata nei vasetti sterilizzati, lasciando tre centimetri di distanza dal tappo, chiudere immediatamente sigillandoli con il tappo ermetico, capovolgerli per cinque minuti, quindi immergerli nella pentola per la sterilizzazione riempita con nuova acqua. Portare l'acqua a ebollizione e poi sobbollire per circa mezz'ora, quindi estrarre i vasetti, asciugarli e riporli in luogo fresco e riparato dalla luce.
La marmellata fatta in casa va consumata entro un anno; una volta aperta, va conservata in frigo e consumata entro venti giorni al massimo. Se il tappo risulta gonfio, se la marmellata subisce alterazioni di colore o presenta muffa, il vasetto va immediatamente buttato.



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giovedì 28 gennaio 2016

LA COTTURA DELLA CARNE



Il tempo di cottura e la temperatura di cottura sono fattori critici in tutte le preparazioni in cui la carne viene arrostita, mentre le cotture in umido (come stufati e brasati) non presentano problemi in tal senso perché il controllo della cottura si esegue semplicemente saggiando la consistenza della carne che si ammorbidisce lentamente con il procedere della cottura.
Nelle carni arrosto la cottura agisce su due caratteristiche fondamentali per ottenere un buon risultato in termini organolettici: il gusto della carne, inteso come sapore e aroma, e la sua consistenza.
Il gusto della carne dipende dalla qualità della stessa, ma anche la cottura può influire in modo determinante, infatti portando la carne a temperature intorno ai 140 gradi si sviluppano le reazioni di Maillard che consentono la formazione di nuovi sapori e soprattutto del tipico aroma di carne arrostita.
Questo fenomeno, tuttavia, deve essere confinato alla superficie della carne per non ottenere un prodotto troppo asciutto e stopposo, causato dalla denaturazione delle proteine che avviene quando si superano i 70 gradi.
Dunque, la cottura ideale della carne prevede di arrostire la superficie portandola a temperature medio-alte per poco tempo, in modo tale da non consentire al calore di penetrare troppo all'interno, lasciando quindi la maggior parte della superficie interna del pezzo di carne a temperature ideali.

Il termometro da cucina è uno strumento che può essere utilizzato per molti scopi, ma sicuramente il controllo della temperatura della carne arrosto è l’utilizzo per il quale risulta essere insostituibile. Infatti, variazioni di qualche grado della temperatura al cuore della carne (che dipendono da variazioni di qualche minuto del tempo di cottura) possono fare la differenza tra una carne cotta a puntino e una carne troppo cruda o troppo cotta.
La temperatura della carne va misurata al cuore, cioè nel punto più profondo, in quello più lontano dalla superficie che è anche il punto più freddo. La carne in quel punto avrà la temperatura desiderata, il che corrisponderà a un determinato stadio di cottura. Bisogna tuttavia considerare che la temperatura aumenta in modo graduale dal cuore alla superficie: dunque, se il pezzo di carne è grosso (per esempio un arrosto di 20 cm di diametro), quando al cuore la cottura è perfetta, a 3/4 di profondità la cottura potrebbe essere eccessiva e la carne risultare stopposa. In questi casi conviene quindi avere una carne un po’ indietro di cottura al centro e perfettamente cotta altrove.
Per valutare il tempo di cottura bisogna inoltre considerare che a causa del calore che viene trasmesso dalle parti esterne del pezzo di carne, la temperatura al cuore aumenta di qualche grado durante il tempo di riposo (da 2 gradi in una bistecca alta 3 cm a 5-6 gradi in un grande arrosto) e quindi va tolta dal forno prima del raggiungimento della temperatura ideale.

Alcune carni hanno intervalli di temperatura di cottura ideali piuttosto limitati, mentre alcune carni, definite "carni rosse" possono essere cotte in modi molto diversi mantenendo buone caratteristiche organolettiche.
Gli animali cui fanno riferimento queste cotture sono il bovino adulto, il montone o il castrato, il cavallo adulto, l’anatra e il piccione, il cinghiale, il capriolo e il cervo. Per queste carni esistono quattro stadi di cottura:
cottura au bleu (temperatura di cottura al cuore di 40 gradi): fatta a temperatura molto alta per poco tempo, al tatto si presenta molle e nel cuore la carne deve risultare rossa e appena tiepida.
cottura saignant o al sangue (temperatura di cottura al cuore di 50 gradi): la cottura è leggermente più prolungata, la crosta in superficie è più spessa e resistente alla pressione, al cuore la carne deve essere ancora rossa e abbastanza calda.
cottura à point o al punto (temperatura di cottura al cuore di 60 gradi): la cottura è eseguita a temperature inferiori e più prolungata. Al fine di omogeneizzare la temperatura interna, il pezzo di carne deve riposare dopo la cottura per un tempo proporzionale al suo spessore. Al taglio la carne deve presentarsi di un colore rosa uniforme e calda. Nella cottura alla griglia, la carne va girata quando si presentano piccole goccioline sulla parte superiore, quindi va tolta dal fuoco quando si ripresenta la stessa situazione dall’altro lato.
cottura ben cuit o ben cotta (temperatura di cottura al cuore di 70 gradi): cottura lunga, a bassa temperatura, al tatto la carne si presenta dura, al taglio di colore bruno e ben calda.



Per cuocere al meglio la carne è necessario che la temperatura di attacco sia almeno di 140°C, in modo da creare un rivestimento esterno che blocchi i succhi della bistecca, mantenendo la carne morbida all'interno. Dalla cosidetta reazione di Maillard deriva che la carne, come lo zucchero, quando viene cotta caramellizza.

Cucinare bene una carne non significa nient’altro che trovare il metodo giusto per darle la consistenza corretta, un sapore e un aroma gradevole. Ma per ottenere questo bisogna avere una, sia pure basilare, conoscenza della sua struttura e della sua composizione; la grana, per esempio dipende dalle fibre muscolari che, a loro volta, sono costituite da fasci di proteine fibrillari, che si contraggono all’arrivo di segnali chimici, così lavorano i muscoli. Tra queste fasce di fibre c’è il tessuto connettivo, che mantiene unito il muscolo e lo lega all’osso.

Tutti gli esseri viventi, anche le piante e i vegetali, contengono zuccheri all’interno della propria struttura molecolare, che rappresentano un apporto di energia per tutti noi; ora sappiamo che lo zucchero sottoposto a calore cambia consistenza e comincia a sciogliersi, diventa translucido, bianco, acquista sfumature cromatiche che si avvicinano al classico colore del caramello.

Lo zucchero quindi imbrunisce sino a diventare caramello, e se la temperatura non viene controllata lo zucchero brucia, diventa nero. Questa prima facile spiegazione è collegata alla cottura della carne, ma prima di approfondirla come merita, passiamo dalle verdure; per esempio la carota, notoriamente ricca di zucchero, se messa in una padella a cuocere, assume il colore del caramello, diventa croccante come molte altre verdure, una su tutte la cipolla, anch’essa molto zuccherina, al punto che un cuoco come Davide Oldani ne ha fatto una leggenda: sua la famosa Cipolla caramellata.
La cottura della carne ci porta direttamente ad un nome, quello del medico francese Louis-Camille Maillard, che studiava il metabolismo cellulare, soffermandosi su come gli aminoacidi (la base delle proteine) possano reagire con gli zuccheri presenti nelle cellule, nei suoi studi scoprì involontariamente quello che noi oggi definiamo “il tipico sapore di carne arrosto”, da qui deriva la reazione Maillard, e rappresenta il segreto per cucinare una buona bistecca.
Tutti i cuochi sfruttano in maniera inconsapevole gli studi di Maillard e il risultato di una buona Fiorentina cotta alla griglia è una conseguenza della reazione degli zuccheri. Non tutte le carni però contengono zuccheri in quantità sufficienti per far scattare la reazione di Maillard, perciò l’uomo ha risolto la questione facendo pratica in cucina, per esempio l’anatra all’arancia, prende gli zuccheri da quest’ultima; il vino per le marinate, l’olio per ungere, o anche il limone, o addirittura il miele per glassare, sono tutti ingredienti che forniscono alle carni gli zuccheri necessari.

Il colore di una carne alla griglia, imbrunisce sino ad assumere il colore del caramello, ecco che si materializza la presenza degli zuccheri nella carne, tant’è che il risultato se non controlliamo bene la cottura è proprio quella della bruciatura, perché la carne si comporta come lo zucchero quando viene cotta caramellizza. Sia ben chiaro non è solo una reazione zuccherina, ma l’insieme delle reazioni tra gli aminoacidi delle proteine e gli stessi zuccheri, responsabili della creazione di centinaia di piccole molecole odorose.

Ma c’è un piccolo segreto per ottenere una buona carne alla griglia o in padella, per far sì che si inneschi la reazione di Maillard, è necessario che la temperatura di attacco per cuocere la Fiorentina sia almeno di 140°. Questo processo favorisce la creazione di una specie di rivestimento esterno, dove in superficie gli zuccheri caramellizzano, mentre i succhi della carne restano all’interno, non possiamo infatti dimenticare che le carni contengono il 70% di acqua, che se non protetta farebbe più lessare che arrostire la carne, perciò i succhi e l’acqua restano bloccati all’interno della bistecca dando alla stessa la morbidezza necessaria per un buon risultato. Prossimamente parleremo della struttura della carne, del rapporto con i grassi e della frollatura.

Se cuociamo la carne in padella possiamo sfruttare l’olio che usiamo per veicolare il calore. Con un dito facciamo cadere una goccia d’acqua e se va subito in ebollizione siamo certi che la temperatura è superiore a 100 gradi. Se utilizziamo la piastra e la goccia d’acqua che lasciamo cadere evapora istantaneamente vuol dire che è pronta.



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mercoledì 27 gennaio 2016

LE CHIACCHIERE



Le chiacchiere sono dei tipici dolci italiani preparati solitamente durante il periodo di Carnevale, chiamati anche con molti altri nomi regionali

È un dolce che ha origine nella Roma antica ed in seguito si è diffuso in tutto il mondo in diverse varianti. Le chiacchiere possono essere anche napoletane e il loro nome deriva dalla regina Savoia che volle chiacchierare ma ad un certo punto, le venne fame e chiamò il cuoco Raffaele Esposito per farsi fare un dolce che lui chiamo le chiacchiere.

Hanno la forma di una striscia, talvolta manipolata a formare un nodo (in alcune zone prendono infatti il nome di fiocchetti).

La base è un impasto di farina, successivamente ci sono due possibilità:

1) l'impasto viene fritto

2) l'impasto viene cotto al forno

Infine si spolvera con zucchero a velo.

Possono anche essere coperte da miele, cioccolato e/o zucchero a velo, innaffiate con alchermes o servite con il cioccolato fondente o con mascarpone montato e zuccherato.

Preparazione:
Setacciate la farina e mettetela in una ciotola molto ampia: se volete essere certe che le vostre chiacchiere siano vaporose e con molte bolle aggiungete anche una bustina di lievito.

Aggiungete quindi due uova intere e un tuorlo e cominciate a lavorare l’impasto: unite all’impasto il burro e continuate a lavorare. Versate nella ciotola anche lo zucchero e la buccia del limone grattugiata: per velocizzare il procedimento potete utilizzare anche un’impastatrice.



Fermatevi di impastare solo quando avrete ottenuto un impasto omogeneo ed elastico. Dategli la forma di una palla e avvolgetelo nella pellicola: riponetelo in frigo e lasciatelo riposare per una ventina di minuti. Trascorso questo periodo di riposo, estraete l’impasto: ritagliatene delle porzioni più piccole e stendete l’impasto.

Dovrete ottenere delle sfoglie abbastanza sottili ed essendo un impasto abbastanza elastico sarà abbastanza impegnativo da stendere con il mattarello. Le sfoglie dovranno avere uno spessore di circa un millimetro e mezzo: dategli una forma allungata.

Per rendere le chiacchiere più vaporose, potete ripiegare la striscia di pasta appena stesa su se stesse e quindi stendetela una volta in più. Con il rullino ritagliate quindi dei rettangoli e fate due taglietti al centro di ciascun quadrato.

Quando avrete finito di stendere tutte le chiacchiere, cominciate a scaldare l’olio in una pentola molto ampia: quando l’olio avrà raggiunto la temperatura di circa 170 gradi, immergete i primi rettangoli di pasta. Lasciate friggere le chiacchiere per circa 4 minuti, fino a quando non avranno assunto una colorazione dorata. Quindi scolatele e adagiatele su un foglio di carta assorbente: resistete qualche secondo prima di addentarle e cospargetele con zucchero a velo.

100 gr. contengono 489 calorie. Non c’è da sottovalutare poi il fatto che la loro cottura è in olio bollente fritto. Le calorie si dimezzano se si preferisce la ricetta light al forno. Insomma, tanto buone quanto caloriche queste chiacchiere. Per un giorno all’anno però, dimenticate la bilancia e godetevi il Carnevale!





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martedì 26 gennaio 2016

I KAKI





Il Diospyros Kaki è una delle più antiche piante da frutta coltivate dall'uomo, conosciuta per il suo uso in Cina da più di 2000 anni. In cinese il frutto viene chiamato shìzi mentre l'albero è noto come  shizishu. La sua prima descrizione botanica pubblicata risale al 1780. Il nome scientifico proviene dall'unione delle parole greche Diòs (caso genitivo di Zeus) e pyròs (grano), letteralmente "grano di Zeus".

È originario della zona centro-meridionale della Cina, ma comunque mai al di sotto dei 20° di latitudine Nord, e nelle zone più meridionali spesso in zone collinari o montane più fredde; sopporta male i climi caldo-umidi, soprattutto se con suolo mal drenato.

Detto mela d'Oriente, fu definito dai cinesi l'albero delle sette virtù: vive a lungo, dà grande ombra, dà agli uccelli la possibilità di nidificare fra i suoi rami, non è attaccato da parassiti, le sue foglie giallo-rosse in autunno sono decorative fino ai geli, il legno dà un bel fuoco, la caduta dell'abbondante fogliame fornisce ricche sostanze concimanti. Dalla Cina si è esteso nei paesi limitrofi, come la Corea e il Giappone.

Intorno alla metà dell'Ottocento fu diffuso in America e Europa. I primi impianti specializzati in Italia sorsero nel Salernitano, in particolare nell'Agro Nocerino, a partire dal 1916, estendendosi poi in Emilia. In Italia la produzione si è stabilizzata intorno alle 65.000 tonnellate: la coltura è sporadicamente diffusa su tutto il territorio, ma è importante solo in Campania e Emilia con produzioni rispettive di 35.000 tonnellate e 22.000 tonnellate. In Sicilia è più diffuso il kaki di Misilmeri.

Il cachi è oggi considerato "l'albero della pace", perché alcuni alberi sopravvissero al bombardamento atomico di Nagasaki nell'agosto 1945.

L’alto contenuto zuccherino di questo frutto lo rende sconsigliato a chi soffre di diabete o obesità, mentre è un eccellente re-mineralizzante e vitaminizzante dato l’alto apporto di potassio, fosforo, magnesio, vitamina C, beta carotene. Ha proprietà lassative ed è un buon diuretico, ed è consigliato a chi ha problemi epatici, e gode di proprietà protettive per pancreas, stomaco, intestino. Si consuma solitamente da fresco, ma con il kaki si possono anche preparare ottime marmellate e confetture. E’ consigliabile acquistare questi frutti leggermente acerbi perché durino un po’ di più – i frutto maturo deperisce molto velocemente – e per minimizzare il rischio di romperli durante il trasporto a casa vista l’estrema delicatezza della loro polpa.



Il frutto andrebbe mangiato o usato nelle varie ricette solo una volta che sia perfettamente maturato: se acerbo dà il classico gusto "allappato", dovuto alla grande quantità di tannino. Se invece si sceglie di essiccarlo, si deve utilizzare un frutto non ancora maturo, che può essere essiccato al sole o negli essiccatoi dopo che è sato sbucciato, denocciolato e tagliato a spicchi. Comunque anche per uso domestico può essere comprato ancora non perfettamente maturo, poiché raggiunge la maturazione velocemente: un piccolo trucco per accelerare questo processo è quello di sistemare il frutto vicino a delle mele.
Data la dolcezza del frutto maturo, in cucina è destinato ad essere un ottimo dessert, già in purezza. Se si desidera presentarlo in una preparazione più complessa, la confettura di kaki è estremamente semplice da realizzare, e il tocco magistrale consiste nell’aggiungere un po' di Grand Marnier. Occorre fare attenzione alla varietà di kaki che si sceglie di utilizzare, poiché se il tipico sapore è lo stesso, la consistenza tra kaki e kaki vaniglia è diversissima: il kaki ha una polpa cremosa che può essere estratta direttamente con un cucchiaino, mentre il kaki vaniglia ha una polpa soda e va tagliato a fette.
Data la consistenza gelatinosa del kaki, è perfetto anche per preparazioni come i budini, in cui può essere accompagnato da altri frutti, magari con connotazione più acida come fragole o frutti di bosco, per riequilibrare l'eccessiva dolcezza.
In Giappone il kaki viene utilizzato per la realizzazione di bevande alcoliche, comprese derminate varietà di sakè.

Dato l'alto contenuto di zuccheri è sconsigliato a chi è obeso o soffre di diabete; ma si tratta praticamente dell'unica controindicazione, perché per il resto il kaki è un frutto ricco di vitamina C, betacarotene e di minerali come il potassio, e ha proprietà benefiche che spaziano dagli effetti lassativi (se il frutto è maturo; se è acerbo, al contrario, può risultare astringente) e diuretici, alla capacità di proteggere e depurare il fegato.
Gli effetti regolatori sull'intestino sono i più conosciuti, ma i kaki in realtà sono i frutti perfetti anche per i bambini, gli sportivi, gli astenici, poiché hanno straordinarie capacità energizzanti, dovute principalmente agli zuccheri che contengono. Anche in questo caso è bene distinguere fra kaki maturi e acerbi: così come i kaki maturi aiutano in caso di stipsi, mentre quelli acerbi sono astringenti, per quanto riguarda la presenza di zuccheri, nei kaki acerbi è molto più limitata, e il sapore "allappante" è dovuto al tannino, che durante la maturazione si riduce. Se l'astenia è dovuta a problemi connessi con la funzionalità epatica, il kaki è un’ottima soluzione; contro la stipsi il frutto maturo è consigliato a colazione, privato di semi e buccia. Gli effetti diuretici sono dovuti all'alta percentuale contenuta di potassio, quelli lassativi sono anche conseguenza della discreta quantità di fibre.

Un etto di kaki corrisponde a circa 65 calorie. Il frutto è composto quasi all'80 per cento d'acqua, fino al 18 per cento di zuccheri, e ha percentuali bassissime di proteine e grassi, rispettivamente 0,80 e 0,40 per cento, mentre presenta circa un 2,5 per cento di fibre. Contiene vitamina C e betacarotene; tra i minerali il più presente è il potassio, in notevole quantità, seguito da fosforo, magnesio, calcio e sodio.





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lunedì 25 gennaio 2016

IL MARSALA



La versione più accreditata sulla nascita del Marsala come vino liquoroso (o fortificato) è incentrata sulla figura del commerciante inglese John Woodhouse il quale nel 1773 approdò con la nave su cui viaggiava nel porto di Marsala.
Secondo la tradizione, durante la sosta egli ebbe modo, insieme al resto dell’equipaggio, di gustare il vino prodotto nella zona, che veniva invecchiato in botti di legno di rovere assumendo un gusto analogo ai vini spagnoli e portoghesi molto diffusi in quel periodo in Inghilterra.
In realtà gli inglesi ben conoscevano i vini dell'agro marsalese, in quanto da decenni si fermavano nello specchio d'acqua antistante il porto di Marsala per caricare con l'ausilio di apposite barche a basso pescaggio, detti schifazzi, varie vettovaglie, acqua, viveri e, per l'appunto, i vini. È doveroso ricordare che all'epoca il Mediterraneo era assai frequentato da imbarcazioni inglesi, spagnole e francesi, che si contendevano il predominio di Mare Nostrum: Malta diventò terra inglese nel 1800. Il metodo di invecchiamento utilizzato dalla gente del luogo, denominato in perpetuum, consisteva nel rabboccare le botti che contenevano una parte del vino consumato durante l’anno con il vino di nuova produzione, in maniera da conservarne le caratteristiche.
Il vino così trattato piacque a tal punto che Woodhouse decise di imbarcarne una cinquantina di barili, addizionandolo però con acquavite di vino, al fine di elevarne il tenore alcolico e di preservarne le caratteristiche durante il lungo viaggio in mare.
Quel vino siciliano meno costoso riscosse in Inghilterra un grande successo, tanto che Woodhouse decise di ritornare in Sicilia e di iniziarne la produzione e la commercializzazione, utilizzando per l’affinamento il metodo soleras.
Il metodo soleras, già conosciuto in Portogallo ed in Spagna per la produzione rispettivamente del Madeira e dello Sherry, consisteva nel disporre delle botti di rovere su alcune file sovrapposte, iniziando a riempire di vino solo le botti più in alto; dopo un anno una parte del vino veniva travasato nelle botti che si trovavano al livello inferiore, e quelle superiori venivano riempite con il nuovo vino, ed il procedimento si ripeteva di anno in anno; in tale maniera il vino che si trovava nelle botti alla base, pronto per il consumo, risultava composto da uve di annate diverse, e di anno in anno si arricchiva di particolari sapori.

Nel 1833 l'imprenditore palermitano, di origine calabrese, Vincenzo Florio, iniziò a Marsala la produzione di vino Marsala in concorrenza con le aziende inglesi, fondando le Cantine Florio. Nel 1853 la produzione del Marsala ammontò a 6.900 botti, di cui il 23% prodotto dalle cantine Florio, il 19% dalle cantine Woodhouse ed il 58% dalle cantine Ingham & Whitaker. Successivamente la Florio acquisì lo stabilimento Woodhouse, divenendo il primo produttore. Nacquero anche produttori locali: Don Diego Rallo (1860), Vito Curatolo Arini (1875) e la Carlo Pellegrino (1880), ancora oggi tra i maggiori produttori di marsala. Nel 1920 la Cinzano acquisì le cantine Florio e diversi stabilimenti, unificando la produzione sotto il marchio Florio.

La fortuna del vino Marsala ha conosciuto alterne vicende. Una grave crisi attraversò la città e il suo vino dopo la prima guerra mondiale soprattutto per l'operare di commercianti privi di scrupoli che sfruttavano la fama del Marsala per vendere prodotti di qualità scadente.

Per questo, già nel 1931 venivano mossi i primi passi verso una legislazione che proteggesse il Marsala originale dalle imitazioni e che ne circoscrivesse la zona di produzione, e fu tutelato dal governo, con un decreto degli allora ministri Acerbo e Bottai (D.M. 15 ottobre 1931).



Il vino Marsala è stato il primo vino DOC della storia vinicola italiana. Un grande orgoglio per quanti lo producono e per tutto il territorio è stato infatti il riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata nel 1969. Il disciplinare di produzione è stato aggiornato nel 1986 e nel 1995.

Un Consorzio per la tutela del vino Marsala DOC è nato nel 1963 ad iniziativa dei produttori, e riconosciuto nel 2003 dal ministero delle Politiche agricole.

Attualmente il Marsala viene prodotto nel comune omonimo e in tutta la provincia di Trapani, eccezion fatta per le località di Pantelleria, Alcamo e Favignana. A seconda della loro tonalità di colore (influenzata da svariati fattori come uve utilizzate, diverse metodologie di lavorazione e durata dell’invecchiamento) si distinguono diverse qualità di Marsala: “Oro”, “Ambra” e Rubino”.

Un’ulteriore classificazione del Marsala viene effettuata in base al suo contenuto zuccherino e, per questo, esistono le tipologie “Dolce” (quantità di zuccheri superiore a 100 grammi per litro), “Semisecco” (zuccheri compresi fra 40 e 100 grammi per litro) e “Secco” (zuccheri inferiori a 400 grammi per litro).

Ma non è finita qui: esistono anche importanti differenze dovute alle modalità di produzione del Marsala. Per questo, si distinguono le tipologie:

“Fine” (conciato, invecchiato almeno un anno);
“Superiore” (conciato, invecchiato almeno due anni);
“Superiore Riserva” (conciato, invecchiato almeno quattro anni);
“Vergine” o “Soleras” (non conciato, invecchiato almeno cinque anni)
“Vergine Riserva” o “Soleras Stravecchio” o “Soleras Riserva” (non conciato, invecchiato almeno dieci anni).
Per Marsala “conciato” si intende un vino dalla lavorazione del tutto particolare, al quale sono stati aggiunti mosto cotto, sifone ed alcool (o acquavite). Il mosto cotto è un prodotto ottenuto dal mosto delle uve Catarratto, che viene trattato al vapore all’interno di caldaie di rame oppure cotto direttamente sul fuoco. Grazie a questa procedura il mosto diventa denso e molto zuccherino, riducendosi ad un terzo del volume originario; aggiunto al Marsala, gli conferisce un sapore leggermente amarognolo e vellutato. Il “sifone” (detto anche “mistella”) è invece ottenuto dalla vendemmia tardiva delle uve della varietà Grillo; ciò che si ottiene dalla pigiatura viene collocato in botti nelle quali era stato precedentemente posto dell’alcool, che ha lo scopo di bloccare la fermentazione. L’aggiunta del sifone consente al Marsala di avere un gusto forte, ma al contempo anche dolce.

Il termine “Soleras” si riferisce invece ad una modalità di invecchiamento degli alcolici che fu introdotta in Sicilia dallo stesso John Woodhouse. Si tratta di un sistema che all’epoca era già usato per la produzione di altri vini liquorosi come lo Sherry ed il Porto, e che consiste in uno stoccaggio del Marsala in botti sovrapposte per un totale di cinque diversi “strati”. Il vino nuovo viene messo nella botte più in alto, dopo aver trasferito parte del suo contenuto (il vino dell’anno precedente) nella botte sottostante; ogni anno, un terzo del contenuto di ciascun contenitore viene travasato nel contenitore sottostante fino a raggiungere la botte situata alla base della colonna. Il contenuto di quest’ultima è poi destinato all’imbottigliamento. Il vino “Perpetuum” assaggiato per la prima volta da Woodhouse veniva prodotto con un metodo analogo e, da qui, il suo nome: era infatti un modo per “perpetuare” il vino nel tempo.

Per la produzione del Marsala nelle varietà “Ambra” e “Oro” vengono impiegate pregiate uve bianche delle varietà Grillo, Catarratto, Damaschino e Inzolia. Mentre per l’”Oro” è vietata l’aggiunta di mosto cotto, per l’”Ambra” la quantità di mosto cotto deve essere almeno dell’1%. Il Marsala “Rubino” viene invece ottenuto da uve a bacca nera Pignatello, Nerello Mascalese e Nero d’Avola alle quali possono concorrere, per una misura non superiore al 30%, le uve bianche sopra elencate; non è consentita in nessun caso l’aggiunta di mosto cotto.

La resa massima consentita delle uve è di 90 quintali per ettaro per i vitigni a bacca nera, e di 100 quintali per i vitigni a bacca bianca. La resa massima per il mosto è dell’80%, mentre la resa in vino non deve superare il 75%.

L’invecchiamento è un processo variabile, che può durare da un minimo di un anno ad oltre dieci anni. I tempi minimi di invecchiamento sono per il Marsala “Fine” di un anno, per il “Superiore” di due anni, per il “Superiore Riserva” di quattro anni, per il “Vergine” di cinque anni e, infine, per il “Vergine Riserva” di dieci anni.

Il Marsala Fine prodotto nelle tipologie “Oro” ed “Ambra” presenta un colore che va dal giallo ambrato al dorato intenso, con un profumo persistente e tipico che richiama agli aromi di tabacco, legno e liquirizia; il sapore è dolce, caldo ed intenso. Il Marsala Fine “Rubino” è invece contraddistinto da un deciso colore rosso rubino, che con l’invecchiamento assume toni via via sempre più ambrati; il profumo è intenso e presenta aromi di confetture e marasca cotta, con un sapore caldo, aromatico e ricco. La gradazione alcolica minima per la tipologia “Fine” è di 17°.

Il Marsala Superiore nelle tipologie “Oro” ed “Ambra” ha un colore trasparente e brillante che va dal dorato intenso al giallo ambrato. Il suo profumo è molto persistente, armonico e complesso, mentre il sapore è vellutato, dolce, e caratterizzato da una buona struttura. Il Marsala Superiore “Rubino” presenta invece un colore rosso rubino, che diventa via via ambrato col procedere dell’invecchiamento; il profumo è intenso e presenta aromi di fiori appassiti, frutta secca, con un sapore aromatico, caldo, armonico e vellutato. La gradazione alcolica minima per la tipologia “Superiore” è di 18°. Il Superiore Riserva presenta le stesse caratteristiche del Superiore, ma si distingue da esso per l’invecchiamento di durata maggiore (almeno quattro anni, contro i due del “Superiore”).

Infine il Marsala Vergine del tipo “Oro” ed “Ambra” ha un colore brillante compreso fra il dorato e il giallo ambrato, con profumo intenso, persistente ed etereo; il sapore è tipicamente caldo, asciutto ed intenso, ottimamente equilibrato e dalla importante struttura. Il Marsala Vergine “Rubino” presenta invece un brillante colore rosso rubino, talvolta con riflessi aranciati ed ambrati dovuti all’invecchiamento; il profumo è intenso, persistente, caratteristico e complesso, con un sapore vellutato, asciutto, caldo, strutturato e dal grande equilibrio. La gradazione alcolica minima per la tipologia “Vergine” è di 18°. Anche in questo caso il Vergine Riserva presenta caratteristiche analoghe al Vergine, ma un invecchiamento più prolungato (almeno dieci anni).

Tutti i tipi di Marsala vanno serviti in un bicchiere del tipo “tulipano”, a stelo alto.

Il Marsala è considerato fra i migliori vini da dessert del mondo, e si accompagna splendidamente a dessert, frutta e numerosissime specialità di pasticceria. La temperatura di servizio consigliata si aggira sui 12-18°C; in particolare, si consigliano accostamenti come Marsala Fine con biscotti, piccola pasticceria e frutta secca, Marsala Superiore e Superiore Riserva con specialità spiccatamente dolci come pasticceria cremosa e frutta fresca; Marsala Vergine con prodotti da forno e di pasticceria dal sapore non eccessivamente dolce.

Ottimo vino da meditazione, il Marsala può anche essere consumato da solo, lontano dai pasti; in questo caso si prestano bene le tipologie Superiore Riserva, specialmente nelle tipologie “Dolce” o “Semisecco” ad una temperatura di circa 16°C; se si opta invece per il Marsala Vergine o Vergine Stravecchio, la temperatura ottimale è invece di 12-14°C.

Il vino è utilizzato come ingrediente nella preparazione di moltissimi piatti, dagli antipasti al dolce. Fra le preparazioni più famose troviamo, fra i piatti a base di carne, le classiche scaloppine al Marsala o diversi tipi di arrosto. Ottimo per insaporire le preparazioni dolci, il vino Marsala viene impiegato ad esempio nell’impasto dei cannoli siciliani, per la preparazione di dolci al cucchiaio e di crostate, per insaporire la frutta e come ingrediente base per lo zabaione.

Il vino Marsala è presente sul mercato con cinque diverse varietà, che si differenziano tra loro per alcuni fondamentali dettagli. Le loro peculiari caratteristiche aprono il campo a numerose possibili combinazioni con le tipicità locali.

Il disciplinare di produzione (DPR 2 aprile 1969) prevede la possibilità di aggiungere in etichetta alcune sigle derivanti dalle antiche denominazioni dei vari prodotti.
Il Marsala Fine può riportare la sigla I.P. (Italia Particolare).
Il Marsala Superiore può riportare le sigle S.O.M. (Superiore Old Marsala), L.P. (London Particular), G.D o Garibaldi Dolce. Quest'ultima denominazione risale ad una visita allo stabilimento Florio di Marsala che effettuò il Generale dei Due Mondi nel 1862, dopo l'unificazione dell'Italia. Egli, appassionato di buoni vini ma non particolarmente competente, fu particolarmente colpito da un vino molto dolce ancora in lavorazione e destinato a successivi tagli: in suo onore questo vino entrò in produzione e prese il nome di Garibaldi Dolce.

Alcune denominazioni sono ancora consentite dal Disciplinare, ma solo a corredo della classificazione "ortodossa". Osservando le etichette, potrete ancora ritrovarci impresso "S.O.M.", e leggervi Superior Old Marsala, oppure "G.D.", il Superiore Garibaldi Dolce di cui vi abbiamo già parlato, più raramente "L.P.", London Particular, una altra qualità di Superiore, meno secco del "S.O.M.". Frequentemente, il Marsala Fine si chiamerà, invece, "I.P.", Italian Particular. Altre denominazioni, come "O.P." (Old Particular), C.O.M. (Choice Old Marsala), P.G. (Particular Genuin), P.D. (Pale Dry) ed I.M.(Italian Marsala), ed ancora "Parigi", "Stromboli", "Trinacria", "Margherita", "Erice dolce", insieme a tante altre di cui si è persa qualsiasi traccia, appartengono, ormai, soltanto alla gloriosa Storia di questo vino.




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domenica 24 gennaio 2016

IL LATTE DI MANDORLA



Il latte di mandorla è una bevanda non alcolica dolce realizzata mettendo in infusione in acqua le mandorle finemente tritate e spremendo poi le stesse per farne uscire tutto il succo. Viene utilizzato come sostituto del latte vaccino dai vegani e da coloro che, per esempio, non tollerano il latte di soia.

La sua produzione è molto antica e venne sperimentata nei monasteri. Nel Medioevo, la composizione del latte di mandorla, in quanto prodotto dal frutto di una pianta, l'ha reso particolarmente adatto per il consumo durante la Quaresima. Il latte di mandorla (non zuccherato) è stato anche un punto fermo nella cucina medievale cristiana e musulmana, perché il latte di mucca, che non si mantiene a lungo senza guastarsi, di solito era subito trasformato in prodotti caseari più durevoli, tipo il latte fermentato o il formaggio. Veniva consumato in una zona che si estende dalla penisola iberica fino all'Asia.

Diversamente dal latte di mucca, questa bevanda non contiene colesterolo né lattosio, ma ha anche un contenuto inferiore di proteine. Tuttavia, contiene molti nutrienti, come fibre, vitamina E, magnesio, selenio, manganese, zinco, potassio, ferro, fosforo e calcio. Grazie alle sue proprietà, il latte di mandorla aiuta la digestione.
L’unica cosa a cui fare attenzione sono le calorie. Questo ingrediente è molto calorico, ha 50 calorie ogni 100 ml, per questo è bene non assumerne quantità esagerate, per evitare di ingrassare. La dose consigliata si attesta su un bicchiere al giorno.

Il latte di mandorle è un ingrediente molto versatile. Può essere bevuto freddo, al bicchiere, oppure essere utilizzato per realizzare dei dolci o dei piatti salati dal gusto esotico. Inoltre, può essere aggiunto nella preparazione di frullati di frutta, che verranno così ancora più gustosi.
Il latte di mandorla caldo può essere usato anche in ricette tradizionali, come il purè di patate o al posto della panna da cucina nelle zuppe. Il tutto nelle stesse quantità che usereste per il latte di mucca.
Ma il latte di mandorla non si usa solo in cucina. Sono noti anche gli usi cosmetici di questo ingrediente che viene spesso usato come base per shampoo e creme idratanti.



Il sapore del latte di mandorla è simile a quello delle mandorle, ma in commercio si trova anche senza zucchero e in gusti diversi: i più gettonati sono la vaniglia o il cioccolato, che talvolta sono anche arricchiti di vitamine.

Il latte di mandorla fai da te è facilissimo da preparare anche a casa. Basta che frulliate 100 grammi di mandorle sbucciate con 1 litro d’acqua bollente. Lasciate poi riposare per circa due ore, finché la bevanda non si raffredda e poi filtrate il latte con un colino.

Il latte di mandorla zuccherato è altresì una bevanda tipicamente siciliana, diffusasi anche in Calabria, in Basilicata, in Campania e in Puglia.

La regione Puglia ha inserito il latte di mandorla nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani.

È una bevanda dissetante e viene servita, specialmente in estate, ben fredda o ghiacciata come granita. Oltre che da solo, il latte di mandorla può essere utilizzato per la preparazione di altre bevande come ad esempio il caffè in ghiaccio e altri soft drink.

Il latte di mandorla è definito tale solo ed esclusivamente per il colore biancastro; la sua composizione chimica non ricorda nemmeno vagamente quella del latte animale ed il suo consumo non può sostituirlo in alcun modo. L'energia apportata dal latte di mandorla deriva principalmente dai glucidi (semplici) utilizzati per la sua preparazione, nel caso venga formulato a livello casalingo si consiglia di utilizzare il fruttosio in sostituzione al saccarosio ma in dosi inferiori del 30% rispetto alla ricetta comune, sfruttandone il potere dolcificante superiore ed il miglior impatto glicemico (entro certi limiti di dosaggio). Il latte di mandorla apporta una discreta quantità di antiossidanti (Tocoferolo – vit. E) ed il suo consumo potrebbe essere consigliato in sostituzione alle comuni bevande soft-drinks (tipo cola, aranciate, succhi di frutta, ecc); la predominanza dell'apporto di acidi grassi insaturi (oleico e linoleico) conferisce al latte di mandorle una discreta qualità nutrizionale.


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sabato 23 gennaio 2016

LO ZIBIBBO



Lo zibibbo è sia il nome di un vitigno (chiamato anche Moscato d'Alessandria) che del vino dolce che se ne ottiene. La parola "zibibbo" deriva dalla parola araba zabib che vuol dire "uvetta" o "uva passita".

L'uva zibibbo, originaria dell'Egitto, è stata introdotta per opera dei Fenici a Pantelleria, dove tuttora ne viene coltivata la quasi totalità della produzione nazionale. In Sicilia e nella zona dei Pirenei (spagnoli e francesi) dagli arabi. Di origine araba sono invece i caratteristici terrazzamenti dell'isola in cui viene coltivato il vitigno. Oggi lo Zibibbo viene coltivato con una coltura moderna "cordone speronato" in Sicilia e con particolare successo nella zona tra Erice e Mazara del Vallo, le cui uve producono un vino secco di grande pregio, ideale per abbinamenti con ostriche e pesci dalla carne bianca come saraghi orate ecc. Dall'uva Zibibbo si ricava non solo il vino Zibibbo IGT, ma anche DOC come il moscato di Pantelleria e l'Erice vendemmia tardiva Zibibbo.

A foglia media, normalmente trilobata, a grappolo ben voluminoso e oblungo, l'acino è grosso, ovoidale a buccia spessa di colore verde tendente al giallo; la maturazione è un po' tardiva.
L'uva Zibibbo è usata sia per la vinificazione sia per il consumo diretto o per l'essiccazione. L'uva Zibibbo ha particolari proprietà organolettiche.

Se ne ricava un vino giallo paglierino carico con riflessi dorati, dolce e con elevato grado alcolico dal caratteristico profumo. Oltre al consumo a sé stante è utilizzato per la produzione del vino DOC di Pantelleria, nella versione passito, moscato, spumante, del Pantelleria Zibibbo dolce e del vino Erice vendemmia tardiva Zibibbo. Si accompagna a formaggi e pasticceria secca.

Il 26 novembre 2014 a Parigi l'UNESCO ha dichiarato la pratica agricola della coltivazione della vite Zibibbo ad alberello, tipica di Pantelleria, patrimonio dell'umanità. Il dossier, coordinato dal prof. Pier Luigi Petrillo (che in precedenza aveva coordinato con successo le candidature all'UNESCO delle Dolomiti, della Dieta Mediterranea e dei paesaggi vitivinicoli delle Langhe-Roero e Monferrato), è stato approvato all'unanimità da tutti gli Stati parte dell'UNESCO: si tratta della prima pratica agricola al mondo ad ottenere questo prestigioso riconoscimento.

Tipico prodotto dell’isola di Pantelleria, lo Zibibbo è un vino profumatissimo e dal sapore eccezionale che richiama alla mente i colori e le atmosfere del Mediterraneo. Data la scarsità del territorio coltivato e le sempre maggiori difficoltà incontrate dai produttori, si tratta di un vino che ormai sta diventando sempre più una rarità.

E, come tale, merita di essere apprezzato in tutte le sue sfaccettature: non solo per la sua grande qualità, ma anche per via del fatto che viene prodotto da una vera e propria “agricoltura eroica”, capace di sopravvivere nei secoli in una terra arida e difficile.
Secondo il disciplinare di produzione, infatti, può essere ottenuto solo da uve provenienti da quest’isola; anche tutte le operazioni di vinificazione devono essere rigorosamente condotte a Pantelleria, mentre è consentito l’imbottigliamento del prodotto in tutto territorio amministrativo della Regione Autonoma della Sicilia. La DOC per i vini dell’isola di Pantelleria fu istituita nel 1971, quando venne pubblicato il Disciplinare di produzione dei vini a Denominazione d’Origine Controllata “Moscato di Pantelleria”, “Passito di Pantelleria” e “Pantelleria”. In particolare, sotto la tipologia “Pantelleria” ricade anche lo Zibibbo; il Disciplinare è stato successivamente modificato nel 2000.
Le statistiche riportano che, sull’isola, è addirittura coltivato a Zibibbo circa il 95% dei vigneti. Da questo vitigno si ricava non solo l’omonimo vino ma anche, ad esempio, i famosi Moscato e Passito di Pantelleria; inoltre, a causa della sua dolcezza, il prodotto ottenuto può essere anche utilizzato come vino da taglio soprattutto per i vini del nord Italia, che spesso sono deficitari in termini di contenuto zuccherino e di aromaticità. I maggiori acquirenti, in tal senso, sono le regioni del Veneto e del Piemonte. La resa dell’uva in vino si aggira intorno al 70%, per una produzione massima di 70 ettolitri per ettaro.



L’uva Zibibbo matura abbastanza tardivamente e presenta grappoli voluminosi, con acini dal bel colore verde-giallo. È ottima non solo per la produzione di vino, ma anche per il consumo diretto: a causa della sua dolcezza, infatti, viene commerciata sia come uva da tavola che come uva passa.

La produzione è molto bassa: si parla di qualcosa come 10 quintali per ettaro che, paragonato ad altre zone italiane che producono invece 70-120 quintali per ettaro, è davvero indicativa delle difficili condizioni nelle quali le uve Zibibbo si trovano a crescere. Lo stesso Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha riconosciuto ai viticoltori di Pantelleria l’attestazione di “agricoltura eroica”, per via delle difficoltà di coltivazione in un mondo nel quale i piccoli produttori stanno ormai scomparendo, e la produzione di Zibibbo sta registrando un declino costante negli anni.
L’85% dell’economia isolana ruota intorno alla viticoltura e alla produzione degli straordinari vini a DOC di Pantelleria.

Lo Zibibbo è un vino dall’inconfondibile colore giallo dorato brillante, che può essere anche presentare riflessi dorati. Il profumo è tipico, gradevole e fruttato, con note di mandorla, albicocca e zagara. Il sapore è caratteristico di moscato, dolce, aromatico e con un tipico retrogusto di mandorla; vino di gran corpo, lo Zibibbo lascia in bocca un finale aromatico ed elegante.

La gradazione alcolica minima di questo vino è di 10°, con un’acidità totale minima di 5 grammi per litro ed un estratto secco netto minimo di 18 grammi per litro.

Lo Zibibbo viene servito rigorosamente freddo, a temperature comprese fra 8 e 12°C; il bicchiere ideale è un tulipano medio piccolo.

Ottimo come aperitivo, esalta in modo eccezionale i tipici piatti mediterranei a base di pesce e di crostacei. Alcuni apprezzano anche l’abbinamento con piatti saporiti come il foie gras o i formaggi erborinati, ma è con i sapori dolci che questo vino si trova in miglior compagnia. I dolci tipici della tradizione siciliana come cannoli, paste di mandorla, cassata sono un ottimo accompagnamento allo Zibibbo, ma anche dessert o gelati a base di pistacchio o con creme di ricotta.


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venerdì 22 gennaio 2016

LA RICOTTA



La ricotta, pur essendo un prodotto caseario, non si può definire formaggio ma va classificata semplicemente come latticino: non viene ottenuta infatti attraverso la coagulazione della caseina, ma dalle proteine del siero di latte, cioè della parte liquida che si separa dalla cagliata durante la caseificazione.

Il processo di coagulazione delle sieroproteine avviene con il riscaldamento del siero alla temperatura di 80-90 °C. Le proteine interessate sono in particolare albumina e globulina. La tecnologia più antica consisteva solamente nel riscaldare il siero aspettando l'affioramento della ricotta in superficie. Nei secoli si sono via via sviluppate tecnologie che, sfruttando la reazione di saturazione salina, ottenevano un migliore recupero ed una più alta qualità. Tali tecnologie sono quelle riconducibili all'impiego di acque sorgive e/o marine ieri, ed oggi sali per ricotta. Spesso vengono anche aggiunte soluzioni acide (di acido citrico, lattico, sale amaro o inglese per catalizzare la coagulazione).

Il metodo tradizionale siciliano, ancora praticato in alcune piccole aziende agricole dove il formaggio viene preparato ogni giorno con latte crudo e senza fermenti, utilizza la scotta inacidita del giorno prima come catalizzatore: il liquido che rimane dopo la produzione della ricotta viene messo da parte, lasciato inacidire durante la notte e il giorno dopo una piccola quantità di questo liquido viene aggiunta al siero riscaldato per produrre la ricotta.

La massa coagulata viene poi posta in recipienti perforati (anticamente si usavano cestini di vimini o di canne) per far scolare il liquido in eccesso. La ricotta ha un sapore dolce, dovuto al lattosio presente nel siero in misura variabile dal 2 al 4 per cento, in funzione del latte utilizzato. Il contenuto in grasso varia dall'8% (ricotta vaccina) al 24% (ricotta ovina).

Esistono ricotte da latte vaccino, ovino, dal gusto più intenso, caprino o di bufala, così come ce ne sono di miste. Da un punto di vista strettamente nutrizionale viene annoverata tra i prodotti magri (130-240 kcal/100 g, eccetto che non venga addizionata con latte o panna).

Ricca di proteine nobili, fornisce un residuo di lavorazione detto scotta, che veniva spesso utilizzato dai pastori per l'alimentazione dei cani. Esiste anche la ricotta salata o ricotta secca che è ricotta addizionata di sale per la conservazione e fatta essiccare.

Viene prodotta in tutta Italia e quella ovina in particolare in Sardegna, Sicilia, Basilicata, Abruzzo, Puglia, Campania e Calabria e, se salata o infornata è usata grattugiata sulla pasta asciutta, nelle ricette siciliane come la pasta alla Norma. La ricetta abruzzese tradizionale degli anellini alla pecorara, prevedeva l'utilizzo di ricotta essiccata. Infatti era una ricetta che i pastori preparano durante la transumanza quando cioè non era possibile reperire prodotti freschi. Nelle valli valdesi, in provincia di Torino viene prodotto un particolare tipo di ricotta stagionata nel fieno che si chiama saras del fen. Si produce anche la ricotta affumicata: nell'alto Veneto ed in particolare nella provincia di Belluno, ma anche in altre zone del nord est Italia.

La ricotta è anche l'elemento base di molte ricette regionali: tortelli maremmani, schianta pugliese, 'mbignulata calabrese, pastiera napoletana, ricottelle sarde, cannoli, rollò, cassata siciliana (rigorosamente ricotta di pecora), tortelloni di magro.



Gli ingredienti per produrre la ricotta sono il siero ed il sale ma poiché il siero si ottiene da una precedente lavorazione per la produzione di formaggi o mozzarelle nel seguito si descrive il processo completo che non può prescindere dalla produzione di un formaggio i cui ingredienti base sono latte e caglio.

Cosa serve:
un termometro per latte;
latte intero fresco;
caglio (facilmente reperibile in farmacia)
sale
pentolone
fuscelle
Il siero residuo della lavorazione del formaggio viene riscaldato a 80-90 °C, temperatura che varia in funzione del fatto che si aggiunga o meno latte e/o panna. Il siero viene poi acidificato per ottenere l'affioramento della ricotta. Spesso, soprattutto con siero di latte di pecora, non è necessario acidificare.

È prodotta in tutte le regioni italiane: fra le maggiormente commercializzate vi è quella di produzione laziale conosciuta come ricotta romana d.o.p. caratterizzata da una pasta compatta e asciutta. Altri regioni con una produzione importante sono l'Abruzzo, la Basilicata, la Sicilia, la Sardegna, la Campania, la Puglia, la Calabria il Friuli-Venezia Giulia, la Lombardia ed il Piemonte. In molte delle regioni citate esistono ulteriori lavorazioni della ricotta, come quella stagionata, infornata, affumicata o salata.

Fuori dall'Italia si produce ricotta nei paesi mediterranei europei: Francia (sérac, brocciu corso), Grecia (myzíthra, anthótyros), Spagna (requesón) e Malta (rikotta). Nelle regioni alpine di lingua tedesca viene prodotta con il nome di Ziger. In Romania la ricotta è conosciuta da tempi immemorabili con il nome di urda ed è considerata come un prodotto tradizionale rumeno.

In generale, a dispetto delle umili origini, la ricotta di vacca è forse oggi il più nobile tra tutti i latticini; la qualità proteica è infatti nettamente superiore rispetto a quella dei formaggi (ricchi di caseine anziché di sieroproteine), mentre il contenuto lipidico è notevolmente inferiore. La ricotta di vacca è quindi un prodotto relativamente povero di calorie, facilmente digeribile e apportatore di proteine ad altissimo valore biologicio, calcio ed altri preziosi minerali.
Per queste sue caratteristiche, la ricotta vaccina è un alimento contestualizzabile in molti regimi alimentari; fa eccezione quello per i soggetti intolleranti al lattosio dato che - a differenza dei formaggi stagionati - la ricotta ha una percentuale di lattosio elevata, pari a circa il 3,5% (più alta nelle ricotte ottenute aggiungendo latte e panna).

La ricotta è un prodotto fresco e deve essere consumato nel giro di brevissimo tempo, non solo perché, rispetto ad altri prodotti caseari, è più sottoposta all’attacco di microrganismi, ma anche perché ha la tendenza a diventare acida nel giro di breve tempo perdendo il suo caratteristico sapore.

Il processo di deperimento della ricotta è tanto più rapido quanto più essa contiene acqua; una ricotta dura e piuttosto asciutta ha tempi di conservazione più lunghi rispetto a quelli di una ricotta molto cremosa e acquosa.

In linea generale, le ricotte ottenute industrialmente hanno tempi di conservazione maggiori di quelli delle ricotte artigianali, ma rimane comunque valido il consiglio di un consumo in tempi piuttosto rapidi.

Il potere saziante di una ricotta a basso tenore lipidico è considerevole, mentre quello di una ricotta maggiormente grassa è scarso.

Al momento dell’acquisto bisogna distinguere fra ricotte industriali e ricotte artigianali; nel primo caso basta verificare quanto riportato nell’etichetta nutrizionale e regolarsi di conseguenza; nel secondo caso è consigliabile puntare su una ricotta di solo siero, ovvero una ricotta non addizionata di panna o latte (queste ultime sono facilmente distinguibili all’assaggio).




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giovedì 21 gennaio 2016

LE CAROTE



La carota (Daucus carota L., 1753) è una pianta erbacea dal fusto di colore verde appartenente alla famiglia delle Apiaceae; è anche uno dei più comuni ortaggi; il suo nome deriva dal greco Karotón. La carota spontanea è diffusa in Europa, in Asia e nel Nord Africa. Ne esistono molte e diverse cultivar che sono coltivate in tutte le aree temperate del globo.

Allo stato spontaneo è considerata pianta infestante e si trova facilmente in posti assolati ed in zone aride e sassose ma anche in tutti gli ambienti rurali e perfino alle periferie cittadine.

È una specie erbacea biennale, alta fino a 100 cm, che nel secondo anno sviluppa un fusto eretto e ramificato con foglie verdi profondamente divise e pelose. Ha grandi ombrelle di forma globulare composte da ombrellette. Queste sono a loro volta formate da fiori piccoli bianchi a cinque petali; il fiore centrale è rosso scuro. L'infiorescenza presenta grandi brattee giallastre simili alle foglie.

Nei fiori sono presenti delle piccole ghiandole profumate che attirano gli insetti. Le infiorescenze dopo la fecondazione dei fiori si chiudono a nido d'uccello. Fiorisce in primavera da maggio fino a dicembre inoltrato. I frutti sono dei diacheni irti di aculei che aiutano la disseminazione da parte degli animali. La radice è lunga a fittone di colore giallastro, a forma cilindrica, lunga 18–20 cm con diametro intorno ai 2 cm. Nel gergo comune si è soliti riferirsi alla carota come alla parte edibile, di colore arancione, che è la radice.

La parte edibile della carota – che si coltiva due volte l'anno – è la radice (sviluppata a cono rovesciato): le carote precoci vengono raccolte dopo circa quattro mesi mentre le tardive ne richiedono circa sei. In base al tempo di coltivazione la loro lunghezza può variare da un minimo di 3 cm a un massimo di 20 cm. L'uso in cucina della carota è svariato; può essere utilizzata per preparare puree, succhi, minestre, dolci ecc., ma anche cruda in insalata. Ad una temperatura di 0 °C ed un'umidità percentuale tra 90-95 si può conservare per diversi mesi mantenendo inalterate tutte le sue proprietà organolettiche. Se cotta al vapore o consumata cruda conserva ugualmente ogni sua proprietà.

Prima che la coltivazione arrivasse in ogni angolo del mondo, si suppone che la carota sia sta coltivata in primis in Medioriente e che poi sia stata scoperta dai Romani e diffusa dai Greci. E’ curioso sapere come in realtà, le carote non venissero coltivate per mangiarle (troppo dure) ma proprio a scopo medicamentale o come foraggio per gli animali. Cominciarono ed esser considerate commestibili, in Spagna, alla corte di Caterina de’ Medici.

I Romani la coltivavano per le sue proprietà diuretiche, afrodisiache o per farne un rimedio per abortire, mentre in Egitto la si usava come cicatrizzante, nel Medioevo si riteneva invece che facesse bene contro i calcoli renali.

La parte centrale color porpora del fiore bianco viene usata dagli artigiani della miniatura. Dai suoi frutti si ricava un olio aromatico che viene usato per la produzione di liquori. La carota è molto usata in cosmesi perché antiossidante e ricca di betacarotene, perciò stimola l'abbronzatura prevenendo la formazione di rughe e curando la pelle secca e le sue impurità; la sua polpa è un ottimo antinfiammatorio molto adatto a curare piaghe, sfoghi cutanei e screpolature della pelle. È molto indicata per la cura delle affezioni polmonari e nelle dermatosi; quale gastro-protettore delle pareti dello stomaco è un ottimo antiulcera. Fra le altre molteplici proprietà curative, la carota ha quelle di prevenire l'invecchiamento della pelle, facilitare la secrezione del latte nelle puerpere, tonificare il fegato, regolare il colesterolo. Altri benefici riconosciuti sono la facilitazione della diuresi, la tonificazione dei reni, l'innalzamento della emoglobina, la regolazione delle funzioni intestinali. Infine, favorisce la vista portando sollievo ad occhi stanchi ed arrossati.



Le carote si possono cucinare in vari modi, sia grattugiate con il succo di limone per contrastare con la sua acidità la dolcezza della carota. Si possono anche cucinare al vapore. Vengono talvolta usate per accompagnare il soffritto con il sedano e le cipolle. Inoltre sono molto famose le torte di carote, spesso insieme alle mandorle.

Le carote sono un ortaggio ricco di benefici per la salute. Ecco i motivi principali per mangierle più spesso, soprattutto quando le abbiamo a disposizione fresche, magari raccolte dal nostro orto.
Possiamo consumare le carote crude, magari in pinzimonio, oppure cotte con un filo d'olio per ottenere effetti benefici diversi. Non dimentichiamo che con le carote crude possiamo preparare anche ottimi succhi freschi fatti in casa e centrifugati.

Le carote migliorano la fertilità maschile e la qualità dello sperma. I ricercatori statunitensi, che hanno lavorato sotto la guida di Jorge Chavarro, hanno raccolto i risultati ottenuti in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Fertility and Sterility con il titolo di "Semen quality in relation to antioxidant intake in a healthy male population". Dalle osservazioni degli esperti è emerso che il consumo di carote e di frutta e verdura di colore arancione e giallo, come il melone e le patate dolci, sarebbe in grado di incrementare la qualità dello sperma del 10%.

Un gruppo di ricercatori americani - guidato da Chaoyang Li - ha monitorato 15 mila volontari per circa 20 anni, nell'ambito del "Third National Health and Nutrition Examination Survey Follow-up Study", e ha scoperto che i livelli di alfa carotene presenti nel sangue sono inversamente associati al rischio di morte. Una conferma di come mangiare frutta e verdura fresca ricca di antiossidanti come il carotene presente nelle carote aiuti a prevenire la morte prematura.

Le carote, insieme a altre verdure e ortaggi come i broccoli e gli spinaci, combattono l'obesità infantile. Lo afferma una ricerca di due università degli Stati Uniti, l'Università del Texas e quella del South Carolina, pubblicata sul Journal of the Academy of Nutrition and Dietetics, che punta sui benefici che arriverebbero se nella dieta si introducessero regolarmente verdure a foglia verde e ortaggi o frutta di colore arancione, proprio come le carote, ma anche arance o spinaci e broccoli.

Se volete assorbire al meglio il betacarotene - precursore della vitamina A - presente nelle carote, meglio consumarle cotte e condite con un filo d'olio. Il betacarotene, infatti, è più facilmente assimilabile dal corpo dopo una breve cottura. Per questo motivo sarebbe meglio mangiare gli alimenti che lo contengono leggermente scottati in padella o in acqua molto calda. La vitamina A è liposolubile. Viene assorbita meglio dal nostro corpo se la accompagniamo con dei grassi buoni, come l'olio d'oliva extravergine. E' comunque bene alternare il consumo di carote crude e cotte, perché alcune vitamine in esse contenute, come la vitamina C, sono sensibili al calore e si deteriorano con la cottura.

Alcuni ricercatori scozzesi, in uno studio pubblicato dalla rivista scientifica Plos One, hanno esaminato le abitudini alimentari di 35 studenti universitari per sei settimane. Ne è risultato che chi consumava regolarmente frutta e verdura di colore giallo, rosso e arancio, con particolare riferimento alle carote e alla loro ricchezza di betacarotene, aveva un aspetto delle pelle molto più rilassato e roseo.

Molti di voi sapranno già che mangiare carote aiuta a favorire l'abbronzatura. Gli alleati migliori per prepararsi all'esposizione al sole sono i cibi di colore arancione, con particolare riferimento alle carote. Infatti le carote sono considerate degli efficaci abbronzanti naturali poiché sono ricche di betacarotene, elemento che stimola la melanina, sostanza che dà colore alla pelle quando ci abbronziamo e la protegge dai raggi ultravioletti.

Le carote spiccano tra gli alimenti benefici per la vista per via della loro ricchezza di vitamina A, utile ad aguzzare le capacità visive, soprattutto notturne, ed a proteggere gli occhi. Le carote contengono inoltre il betacarotene, un preziosissimo antiossidante. Altri alimenti utili da questo punto di vista sono rappresentati dalla zucca, dal melone e dall'albicocca.

La presenza di vitamina C e di beta-carotene rende le carote degli ortaggi particolarmente ricchi di antiossidanti, sostanze utili a contrastare i radicali liberi e l'invecchiamento. In generale, mangiare frutta e verdura fresca aiuta a mantenersi in salute e a prevenire la morte prematura. Tra i cibi ricchi di antiossidanti con cui arricchire la nostra dieta troviamo fragole, pomodori, mirtilli, peperoni e frutti di bosco.

Il consumo di carote è raccomandato in caso di diarrea per la loro ricchezza di vitamine, in modo da reintegrarle nell'organismo, e di pectina, utile per il funzionamento dell'intestino. Le carote possono essere consumate cotte, sotto forma di purea, oppure sotto forma di succo fresco da consumare a temperatura ambiente.

Le carote non sono soltanto arancioni. Di recente gli esperti hanno studiato gli effetti benefici delle carote nere per prevenire il tumore al colon. Polifenoli e fibre, due delle sostanze di cui le carote nere sono ricche, sarebbero la chiave degli effetti antitumorali di questi ortaggi. In particolare, la fibra trasporta i polifenoli verso il colon, dove possono svolgere un effetto preventivo.

Quando si compra un mazzo di carote fresche la parte verde va sempre tagliata o succhierà le vitamine della radice;
le carote esistono di tanti colori: gialle, rosse, bianche arancioni, nere e viola;
al tempo in cui le carote, probabilmente, venivano coltivate in Egitto erano viola, il colore arancione si ottenne in Olanda grazie ad alcune mutazioni genetiche;
gli olandesi decisero di ottenere solo carote arancioni per omaggiare gli Orange, ovvero i regnanti.

Fra i rimedi naturali con le carote, il meno noto è l’olio di semi di carota che contiene geraniolo, limonene, e sesquiterpeni come il daucolo. E’ più noto l’olio essenziale di carota che viene impiegato in cosmesi per produrre abbronzanti ed integratori antiage nonché per il trattamento di pelle secca, impura e scottata.

Con la carota fresca si può preparare un decotto, per migliorare la diuresi, migliorare la digestione, ridurre il problema della gastrite e regolarizzare l’intestino.

Il passato di carote bollite è ottimo per contrastare la dissenteria. Nel caso opposto invece, se quindi si soffre di stitichezza è consigliato mangiare le carote crude.

Il centrifugato di carote è ideale per rinforzare la vista, depurare l’organismo, prevenire gli eritemi solari e favorire la digestione nonché ridurre i bruciori di stomaco.

Un elevato consumo di betacarotene può incrementare la pigmentazione della pelle, dandole un colorito giallognolo. Si consiglia un consumo cauto in caso di diabete. L’olio di semi di carota può avere effetti collaterali sul sistema nervoso centrale pertanto si consiglia cautela ed il consiglio del medico.



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