giovedì 1 ottobre 2015

CIBI SCADUTI



Vi siete mai chiesti che fine fanno i prodotti che i negozi di alimentari non vendono entro il limite di scadenza? I prodotti deperibili non venduti non vengono buttati, perché porterebbero una grossa perdita economica ai venditori, ma vengono rimandati ai produttori, che li rielaborano e li rispediscono ai negozi con una nuova data di scadenza. Questa notizia potete verificarla voi stessi, prendendo in esame uno dei prodotti alimentari che avete in casa e che, magari, trovate in una confezione di cartone: sulla base del contenitore troverete dei numeretti rossi, come mostra la foto. Queste cifre corrispondono esattamente al numero di volte che, secondo legge, il prodotto può essere rilavorato e rimesso in vendita: quindi, se, sul fondo della vostra confezione, trovate ancora tutte le cifre fino alla sesta vuol dire che l’alimento è relativamente fresco e non di seconda mano, mentre viene da preoccuparsi se si osserva, nel caso estremo, soltanto il numero “6”. Di fatto, ogni volta che il processo di rilavorazione viene applicato ad un prodotto, uno dei numeretti rossi, partendo al primo, viene tolto dalla base della confezione, in modo che i restanti fungano da indice del numero di restanti tentativi applicabili, sempre secondo legge. Perciò, se avete tirato fuori dal vostro frigo una confezione di panna da cucina, che ha una scadenza massima di 2 anni dall’anno di produzione, moltiplicare per 6 questo valore equivale a ben 12 anni di vita per lo stesso prodotto: insomma, potreste avere per le mani un alimento che dovrebbe essere considerato inutilizzabile dopo soli 2 anni dal momento della produzione, ma in realtà è stato ribollito e pastorizzato per sei volte.

L’Italia dei cibi scaduti è una macchina dello spreco che brucia ogni giorno 1.590.142 pasti completi. Quanto basterebbe ad apparecchiare prima colazione, pranzo e cena per 636.660 persone. E che fa viaggiare verso gli impianti di smaltimento – o, peggio ancora, verso la discarica – 16.283 tir all’anno stracarichi di yogurt, verdura, fette biscottate, bistecche e formaggi. Rei solo di essere rimasti troppo a lungo tra gli scaffali di negozi e ipermercati, superando la soglia di non ritorno della loro data di scadenza. Che fine fa tutto questo ben di Dio che vale quasi un miliardo di euro l’anno? Ed è davvero tutto cibo da buttare?
A regolare nascita, vita, morte (e in qualche caso reincarnazione sotto nuove forme) di quello che mangiamo è un rigido regolamento europeo completato da alcune norme tutte tricolori. Esistono due tipi di etichette per fissare la scadenza: una tassativa – “Da consumarsi entro” – destinata ai prodotti rapidamente deperibili come latte fresco, carne, uova e pesce che non possono essere venduti oltre il giorno stabilito. L’altra aggiunge solo un avverbio – “Da consumarsi preferibilmente entro” (la troviamo per dire su pasta, yogurt, oli e succhi di frutta) – ma ha caratteristiche completamente diverse. È un’indicazione “commerciale”, tecnicamente il“”termine minimo di conservazione”, stabilito dai produttori per indicare la data presunta in cui l’articolo inizia a perdere le sue caratteristiche organolettiche. Senza per questo essere per forza dannoso per la salute. «Prendiamo lo yogurt – spiega Andrea Segrè, preside della facoltà di agraria di Bologna e presidente di Last Minute Market (Lmm), una società creata dall’università emiliana per il recupero (a fin di bene) dei cibi invenduti – . Cosa succede un secondo dopo l’ora X indicata come termine “preferibile” di consumo in etichetta? Niente. Semplicemente muore qualche migliaio dei milioni di fermenti lattici vivi presenti nella vaschetta. Lo yogurt in sé se ben conservato è ancora perfettamente commestibile per altre due settimane.




Quanto si conservano in media i cibi una volta arrivati al supermercato? E quali sono quelli che scadono di più? Negozi, supermercati e iper tricolori non riescono a vendere, a volte anche per difetti di conservazione, tra l’1 e l’1,2% del loro fatturato. Qualcosa come 244mila tonnellate di prodotto l’anno. Lo spreco però è a diverse velocità. Il re assoluto di categoria – specie nella grande distribuzione – è il pane: tra francesini, baguette, bocconi al sesamo, michette e filoni ne resta sugli scaffali ogni giorno qualcosa come il 15%. Segue la verdura con uno scarto secondo i dati Lmm del 10%. Secondo stime interne di Assolatte il reso del latte fresco («vita media 6 giorni allungabili a nove con una buona conservazione in frigo», assicura un esperto di settore) è tra il 2,5% e il 3%. Quello dello yogurt è tra il 3 e il 5% malgrado una durata tra i 20 e i 30 giorni. «La carne dei banconi di macelleria, tagliata dal dettagliante, dura attorno ai tre giorni e ha tassi di invenduto sotto l’1,6%», spiega Francois Tomei di Assocarni. Resiste di più il pollo pre-confezionato in atmosfera modificata (senza ossigeno in vaschetta) che dura sei-sette giorni nel frigo del negozio. I prodotti a scadenza più lunga – la pasta di grano duri, i biscotti e i formaggi stagionati come parmigiano e grana – hanno invece resi vicini allo zero.

Cosa succede al cibo scaduto o quasi? Chi ha la responsabilità di riciclarlo o smaltirlo? E quanto costa? Anche in questo caso la legge non lascia dubbi: «Il produttore del rifiuto è responsabile della sua destinazione finale» spiega Paola Ficco, giurista ambientale e docente presso La Sapienza. La sola industria alimentare, secondo le stime della Fda americana, spende il 4% dei suoi ricavi per smaltire questo eccesso. Non proprio spiccioli: il listino prezzi delle aziende specializzate nel trattamento del cibo scaduto offre servizi di ritiro a prezzi che vanno dai 6 agli 80 centesimi al chilo a seconda del prodotto. Ridurre al minimo lo spreco, insomma, è pure questione di risparmio. «Noi cerchiamo di lavorare come padri di famiglia, riducendo al minimo l’invenduto» conferma Renata Pascarelli della direzione qualità di Coop Italia. Come? Il metodo più semplice è quello dei big della grande distribuzione inglese: la creazione di aree specifiche nel punto vendita dove concentrare la vendita a forte sconto – tra il 30 e il 50% – dei prodotti vicini alla scadenza.

Questa specie di saldo last minute sta iniziando a prender piede in Italia solo ora. La via maestra per ridurre lo spreco nel Belpaese è un’altra: l’intervento di società organizzate per raccogliere gli alimenti che si avvicinano alla “morte organolettica” per riutilizzarli a fini benefici. «Una scommessa in cui vincono tutti: il produttore che risparmia, l’ipermercato che delega la logistica, l’ambiente che elimina i rifiuti e chi riceve in dono il cibo», dice Segrè.Il Banco Alimentare da solo ha raccolto e redistribuito nel 2009 lungo l’intera filiera dal campo all’iper merce per 228 milioni di euro. Last minute market lavora con 40 differenti realtà in tutta Italia. Secondo le stime dello spin-off universitario di Bologna, il solo recupero del cibo che scade tra gli scaffali consentirebbe di ridurre di 291mila tonnellate l’anno le emissioni di CO2 in Italia. «Di lavoro da fare ce n’è molto – assicura Segrè – . Nel 2003, per dare un’idea, abbiamo fatto il primo lavoro con un supermercato di 6mila mq. a Bologna. In un anno abbiamo riciclato 172 tonnellate, 17 tir in meno in discarica e pasti ogni giorno per 350 persone».



La percentuale di alimenti quasi scaduti recuperati in tavola è però ancora ridottissima. Cosa succede a quelli ormai irrecuperabili? Si possono riciclare sotto nuove vesti? Anche qui la normativa è composita. Pane e verdura, per dire, «sottostanno alle regole dei rifiuti normali», spiega Ficco. Vanno cioè liberati dagli imballaggi, poi – se le cose sono fatte per bene – finiscono agli impianti di compostaggio o di biogas. Oppure, gli uomini di settore spiegano che è quello che capita più spesso, prendono la strada della discarica.

Più complesso l’iter per le carni. Naturalmente (almeno in teoria) non possono finire nel bidone dei rifiuti così come sono. E devono essere trattati con procedure ben stabilite. «I prodotti non presentabili ma con caratteristiche di commestibilità finiscono per lo più all’industria per l’alimentazione di animali da compagnia», spiega Tomei. Il resto viene degradato a “sottoprodotto di origine animale”. Viene ritirato da aziende specializzate che separano il grasso – la parte più pregiata – in impianti di colatura e bollitura. Gli scarti meno nobili sono indirizzati all’incenerimento, all’industria dei fertilizzanti e alla termovalorizzazione del biogas. La parte più pregiata della ex-fettina o della coscia di pollo viene girata all’industria chimica. Che utilizza i derivati di carne scaduta nella produzione di detersivi, saponi e persino di medicinali. «Quando le materie
prime della chimica hanno prezzi alti questo è persino un business in grado di rendere qualcosa», conclude Tomei. Il grasso, per dire, può valere diverse centinaia di euro a tonnellata.

Latte, yogurt e formaggi scaduti – anche loro sottoposti in teoria a regole precise – subiscono due tipi di processi di trasformazione: l’utilizzo più frequente dopo la scadenza è quello per l’alimentazione animale (specie suini). E in questo caso ad assorbire i surplus sono gli allevamenti più vicini agli impianti di produzione. Altrimenti vengono polverizzati e le proteine nobili ottenute da questo trattamento possono trasformarsi in mangimi o persino in principi per nuovi prodotti destinati ad alimentazione umana. In alternativa possono essere sversati pure loro in impianti di compostaggio o biogas o conferiti agli inceneritori oppure venir gettati tout court in discarica «anche se l’elevato contenuto di carbonio organico disciolto, responsabile di cattivi odori, sconsiglia questo utilizzo», conclude Ficco.

Perché malgrado questa rete normativa di protezione ogni anno leggiamo di truffe sul cibo scaduto? Quali sono i punti deboli di questa catena? Per dare una risposta, più che alle risposte ufficiali delle associazioni di settore o dei singoli attori della filiera, bisogna affidarsi in questo caso alle mezze ammissioni informali che tutti, a patto dell’anonimato, sono disposti a fare. E che dipingono un quadro abbastanza uniforme per capire come mai in Italia continuino a spuntare esercenti che cambiano le etichette per allungare la vita dei loro prodotti o si scoprano magazzini clandestini dove si fanno risorgere come Lazzaro partite di formaggio coperte di muffa e già trasformate in pasto per vermi.

Le ispezioni – è il parere di molti protagonisti del settore – non mancano. Solo nel 2009 i Nas hanno operato 34.675 perquisizioni a sorpresa contro i pirati alimentari. E in linea di massima né l’industria alimentare né le catene di vendita al dettaglio «hanno interesse a favorire fenomeni illegali di questo tipo, anche perché loro ci mettono la faccia», dice un ufficiale dei Nuclei anti-sofisticazione. La casistica dei reati scoperti è chiara: a taroccare di più sulla destinazione dei cibi scaduti sono due categorie: «I piccoli dettaglianti e i supermercati di dimensioni minori (dove “scade” il 20% delle 244mila tonnellate bruciate nel commercio al dettaglio) – dicono ai Nas – e gli smaltitori più spregiudicati». «I primi spesso faticano a farsi carico dei costi, altissimi per loro, necessari per eliminare gli “avanzi”», dice Segrè. E finiscono così per forzare artificialmente la scadenza ritoccando l’etichetta o per gettare in pattumiera senza troppo riguardo quello che non si può più vendere. I secondi invece dopo essere stati pagati per trattare gli ex-alimenti vanno al raddoppio. E invece che pagare per distruggerli o valorizzarli, finiscono per rivenderli sul mercato nero dell’alimentazione clandestina «dove si riciclano questi prodotti rendendoli presentabili e immettendoli su circuiti di vendita paralleli».

Con rischi ovvi per la salute degli italiani. La soluzione? «Ridurre gli sprechi a zero!» è la parola d’ordine di Segrè. In un paese che dal campo alla discarica, passando per industria e distribuzione, perde 20 milioni di tonnellate di cibo l’anno (valore 37 miliardi, il 3% del Pil) vorrebbe dire risparmiare i soldi – oltre ai costi sociali e ambientali – di tre manovre finanziarie.





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